Da Archivio 68
Articolo “SAPERE” n° 802 luglio 1977
Intervento di Angelo Baracca all’interno di un dibattito aperto dalla lettera di Cesare Maffioli pubblicata sul n° 797 di “SAPERE”
Angelo Baracca
“Qualche esperienza concreta”
Proprio in occasione dell’apertura del dibattito sulla lettera del compagno Maffioli ho avuto l’opportunità di alcuni scambi di idee significativi ed emblematici sulla scarsa chiarezza in tema di didattica e una circostanza fortuita mi ha fatto incontrare lo stesso Maffioli. Mi sono così convinto della necessità di scendere ulteriormente nel concreto, di confrontarsi più diretta- mente sulle rispettive esperienze, per quanto parziali e limitate. Non rinnego nulla dell’impostazione generale della mia lettera precedente, che rimane anzi per me una premessa necessaria. Ma per altri versi mi avvedo con crescente drammaticità che non si può continuare a parlare solo in generale della non neutralità della scienza, mettendone magari in evidenza con analisi circostanziate il marchio di classe che esiste nei suoi contenuti, e poi continuare a insegnare le stesse cose di sempre, i medesimi formalismi, semmai con un pizzico di spirito critico, ma impartendoli comunque come tali, alimentando così una divaricazione pericolosa quanto diffusa tra quello che .si dice e quello che si fa, o peggio tra il lavoro « professionale » e l’impegno « politico »: cosa tanto più grave, poi, quando ci si rivolge ai giovani e non se ne valorizzano a sufficienza le potenzialità di scelte alternative o di progetti consapevolmente eversivi, contribuendo in definitiva a incanalarli — sia pure con maggiore consapevolezza — nei ruoli tradizionali. Così, è proprio per non fare il « grillo parlante » che vorrei portare la mia esperienza in termini più concreti.
Credo che se una cosa in essa può avere valore, ciò sia costituito da una costante collaborazione, da un’elaborazione comune con gli studenti del Corso di Laurea in Fisica di Firenze. Insieme si è cercato in questi anni da un lato di avviare una riflessione generale sulla scienza che fosse capace di fornire insieme un contesto teorico e una sorta di piano « strategico » sulle scienze (di qui presero le mosse, in
ultima analisi, le mie stesse riflessioni, i contributi a questa rivista), mentre d’altro lato ci si è costantemente sforzati di trovare qui e ora gli obiettivi, le scadenze, i collegamenti, le alleanze che consentissero di avviare concretamente uno spostamento — sia pure parziale — degli equilibri, l’apertura di spazi reali, l’avanzamento almeno di spezzoni del discorso complessivo. Non è mai stato un lavoro facile, perché l’establishment ha un radicamento strutturale reale e profondo, un’egemonia culturale radicata nel tempo, che non si scalfisce facilmente neppure quando si trovino i collegamenti più avanzati con la classe operaia, il cui ritardo non può venire colmato con forzature soggettive. La strada è molto lunga, ma l’abbiamo seguita, convinti che non esistono scorciatoie.
Per parte mia, ho cercato di fornire agli studenti uno spazio di riflessione e di crescita collettiva, un’esperienza emblematica — per quanto indubbiamente parziale e limitata — nel mio corso di Meccanica Statistica. Da vari anni ho impostato il corso in chiave storica: una ricostruzione che si sforza di non essere mai una semplice cronaca o comunque fine a se stessa, ma cerca di dare il senso della mutevole situazione di classe in cui si sviluppa questa branca cadenzandone in modo significativo le trasformazioni di fon-do e di compenetrare realmente tale ricostruzione con i contenuti apparentemente più « tecnici » della materia. Naturalmente non si tratta affatto di parlare solo di storia della scienza e del marchio di classe che porta impresso, ma di fare anche la scienza, i contenuti più avanzati. Per criticare la ‘ scienza occorre infatti conoscerla bene; anzi occorre sapere andare al di là delle tecniche specifiche e dei formalismi, acquisire una consapevolezza critica che sappia cogliere la possibilità sempre aperta e presente di inquadramenti e impostazioni radicalmente diversi e sempre legata a ottiche di classe conflittuali, a do
mande diverse che si sviluppano a livello sociale.
Nello specifico, il corso prende le mosse cogliendo il senso della prassi scientifica nuova di Maxwell e Boltzmann nel quadro delle esigenze della ripresa dello sviluppo capitalistico dopo le rivoluzioni del 1848, che si accompagna alla domanda reale di una scienza diversa, che superi l’impostazione del positivismo e si spinga al di là dell’orizzonte fenomenologico per guidare in modi originali lo sviluppo tecno-logico. Solo in quest’ottica vengono discussi gli aspetti più tecnici della teoria cinetica di Boltzmann e l’interpretazione meccanicistica del comportamento irreversibile di un gas. Ma anche le difficoltà sollevate dall’approccio cinetico vengono poi inquadrate nella dialettica ancora più profonda aperta dallo sviluppo capitalistico, che diviene scontro di precisi interessi di classe con l’avvio della seconda rivoluzione industriale. Così le impostazioni di Mach e di Ostwald e i fondamenti della teoria cinetica vengono discussi cogliendo la diversa valenza tecnologica e politica delle varie proposte e le ragioni profondamente strutturali — e mai solo scientifiche — del prevalere di una delle alternative. Mentre si insiste sulle potenzialità e i successi reali sul piano scientifico degli approcci basati sulle medie temporali (sviluppi recenti del « problema ergodico », che vengono poi discussi alla fine del corso), si evidenzia il carattere di scelta — storicamente determinata e comprensibile appieno solo con riferimento alla struttura dell’industria chimica in Germania — dell’impostazione proposta da Gibbs nel 1902 in base alle medie calcolate su insiemi statistici. In questo quadro viene trattata tutta la meccanica statistica classica dei processi di equilibrio (insiemi micro canonico, canonico e gran canonico).
Si giunge così alla nascita della teoria dei quanti. Il punto di riferimento è costituito dall’affermarsi anche nella fisica della prassi scientifica ormai impostasi nella ricerca chimica. Si discutono i contributi di Planck, Einstein e Nernst tra il 1900 e il 1910, insistendo anche in questo caso sulle profonde arbitrarietà — sul piano strettamente scientifico — delle proposte teoriche, dal momento che effetto fotoelettrico, corpo nero, calore specifico dei solidi sono stati spiegati anche senza ricorso ai quanti di energia e le potenzialità di approcci alternativi sono lungi dall’essere chiarite fino in fondo. E’ facile invece documentare da un lato l’impaccio ormai costituito dall’impostazione meccanicistica per una scienza che invece antepone alle preoccupazioni di coerenza con una concezione metafisica precostituita quelle di controllo efficace e rapido di problemi specifici che non possono attendere di venire ricostruiti attraverso una complessa trattazione delle interazioni tra i costituenti fondamentali della natura. In questo contesto si discutono la teoria della radiazione e le statistiche quantiche delle particelle indipendenti (Bose – Einstein e Fermi- Dirac), nonché i gas perfetti quantistici. Prima di affrontare la teoria degli insiemi statistici quantici, viene discussa l’ulteriore svolta nella prassi scientifica — che conduce alla formulazione ortodossa della meccanica quantistica — nel clima che prelude la crisi del 1929 e la successiva ristrutturazione neocapitalistica.
Naturalmente tutto ciò è criticabile da mille punti di vista. Gli elementi validi, comunque, non stanno nel tipo di impostazione (che peraltro può contribuire — c ha contribuito — a una presa di coscienza e a una crescita politica), ma semmai nel tipo di proposta generale in cui si inquadra. L’acquisizione di strumenti critici e di consapevolezza politica — che ovviamente e fortunatamente avviene di solito per altra via c su altre basi (anche se poi troppo spesso si arresta appunto al « politico ») — non può essere che un primo passo. Si vuole « conoscere la realtà per trasformarla » e qui viene il difficile! Allora la critica della scienza ufficiale, l’individuazione del marchio di classe che essa porta non possono essere disgiunte da un piano strategico di trasformazione radicale di questa scienza: e un piano strategico che sappia individuare strumenti e obiettivi per cominciare a camminare senza aspettare la rivoluzione. Qui si innesta l’altro discorso di un collegamento reale con la classe operaia e di un recupero di una manualità che si leghi subito a bisogni antagonistici, nel senso che discutevo nella lettera precedente. Questo non solo lo abbiamo avuto chiaro, ma abbiamo cercato di esplicitarlo e avviarlo da cinque anni. Ecco, se c’è un limite macroscopico, plateale nel movimento dei giovani e degli studenti di questi ultimi mesi è che il collegamento con la classe operaia è rimasto quasi sempre un esercizio verbale (a cominciare dagli studenti del Pei), cui al più sono seguiti collegamenti scarsamente incisivi, partecipazioni a scadenze operaie con parole d’ordine spesso generali, generiche e in parte velleitarie, con l’incapacità di praticare obiettivi, di fare proposte tattiche, concrete, per l’oggi. Gli studenti di Fisica di Firenze, almeno negli anni scorsi, hanno avuto sempre chiaro il fatto che il collegamento deve essere invece stabilito su un piano di chiarezza strategica, ma rendendolo anche operativo, individuando obiettivi che possano incidere, aprire spazi reali, crescervi. Il punto è di individuare gli aspetti sui quali da un lato i bisogni operai possano esprimersi con limpidi connotati di classe in barba a compatibilità o politiche dei sacrifici, e dall’altro l’impatto con la didattica e il processo quindi di recupero di una manualità realmente alternativa possano divenire radicali. La nostra scelta è caduta da tempo sul problema della salute e della nocività del lavoro in fabbrica.
Qualcuno storcerà la bocca: le solite cose! Può darsi, ma vediamo un po’. E’ ovvio che non si può ridurre tutto al problema della salute e che non sarebbe corretto cercare di polarizzare unicamente o prevalentemente su di esso l’attività didattica e di ricerca. Ma il problema è di avere anche per le altre scelte un riferimento di classe inequivocabile. Allora il problema della salute è indubbiamente quello che ha maggiore potenzialità dirompente e antagonistica, il solo forse realmente alternativo subito. Sul salario, sui ritmi, ecc. vi sono margini di compromesso, di accomodamento, di offuscamento degli obiettivi di fondo; sulla nocività no. Certo la classe operaia può scegliere di non lottare sulla salute, ma se vi è lotta vera non esistono margini di compromesso: la lotta può arrestarsi ma allora non vi è salvaguardia della salute degli operai; se l’operaio vuole tutta la sua salute è il capitalismo stesso che va eliminato (e con esso naturalmente i salari, i ritmi e l’intera organizzazione capitalistica del lavoro e del territorio). Si tratta, è chiaro, di un’analisi teorica: le maglie del riformismo oggi ingabbiano anche la lotta per la salute, ne sono ben consapevole. Ma una base teorica è necessaria, purché sia capace di superare gli ostacoli e di tradursi fin da ora in iniziative concrete, per quanto parziali. Su entrambi i piani confrontiamoci realmente, senza storcere la bocca con: « le solite cose »! Il discorso che esistono problemi più generali è verissimo, ma quando viene in alternativa a questo
serve solo allo scopo di uccidere le vertenze aziendali e ingabbiare la classe nella politica dei compromessi e dei cedimenti.
Ma la scelta della problematica va fatta anche tenendo conto dell’impatto sulla didattica e sulla ricerca. E qui credo proprio che l’analisi teorica non faccia una grinza. Se questa scienza si è sviluppata in base alle esigenze del profitto, è chiaro che solo le esigenze realmente e inequivocabilmente antagonistiche potranno condurre un giorno a un’altra scienza. Si tratta di puntare proprio su quegli aspetti dell’organizzazione capitalistica del lavoro che sono la conseguenza più diretta della logica del profitto e dello sfruttamento e che sono proprio il prodotto di questa scienza. Si può verificarlo facilmente; questa scienza sa riconoscere una particella elementare tra milioni di eventi, ma non ha metodi attendibili e sicuri per raccogliere e analizzare le polveri in un ambiente di lavoro: la sua presunta oggettività crolla miseramente alla soglia delia fabbrica! Per intenderci, molto schematicamente: l’oggettività va riferita non più agli strumenti scientifici in sé — in quanto appunto essi « ritagliano » le cose da misurare tra gli infiniti presenti — ma alla soggettività operaia — intesa non come giudizio del singolo, ma come giudizio che si forma e assume il carattere della classe in seno al gruppo omogeneo, così, qualora gli strumenti di misura indicassero l’eliminazione di qualsiasi fattore nocivo e invece il gruppo operaio omogeneo accusasse ancora disturbi e malessere, dovremmo dire che è lo strumento a sbagliare, o meglio che esso non coglie la ricchezza degli effetti reali, dai quali ha ritagliato solo quelli che interessavano alla produzione e al profitto a scapito di quelli che riguardano i produttori e gli sfruttati. Non è altrettanto facile acquisire un punto di vista corretto su altri problemi che pure sono problemi di classe, come ad esempio il problema energetico (e la spaccatura nella sinistra sta a dimostrarlo). Un ultimo aspetto tutt’altro che marginale di questa scelta è quello di affrontare in termini concreti il problema dell’occupazione, ma qui non posso dilungarmi.
Tutto ciò è a mio parere vero, ma può non voler dire molto se non vi sono sia gli studenti che gli operai a lottare su questi problemi. Vediamo che cosa si è fatto a Firenze. La realtà fiorentina è basata su piccole e piccolissime fabbriche, con una combattività operaia che raramente ha raggiunto punte molto alte. Dopo altri tentativi passati, nella primavera del 1976 organizzammo a Fisica un dibattito con i compagni della Montedison di Castellanza e con compagni di Torino che lavorano sulla nocività invitando Consigli di Fabbrica e di Zona e strutture sindacali. Malgrado alcune circostanze sfortunate, rincontro fu molto bello e ne scaturì la proposta di potenziare un collegamento già esistente con il Consiglio Metalmeccanico della Zona in cui si trova l’istituto e di avviare un collegamento con il Consiglio di Fabbrica del « Nuovo Pignone »: due situazioni molto diverse perché la seconda è la fabbrica più grossa di Firenze con circa 2.800 lavoratori, mentre la Zona è composta di circa 300 aziende metal-meccaniche estremamente frazionate. Al problema della nocività ci sono arrivati gli operai, quando a settembre la Commissione Ambiente del Consiglio di Fabbrica ha proposto di dare le gambe a questo collegamento cercando di orientare un corso di Laboratorio della Facoltà su questi problemi. E’ subito risultato chiaro che non si voleva fare semplicemente una esperienza esemplare, da ricordare con orgoglio o con rimpianto: vi sono stati altrove lavori e tesi di laurea sulla nocività che non hanno sedimentato nulla all’interno delle facoltà nelle quali si sono fatti. Si trattava di portare in primo luogo gli studenti a essere protagonisti di quest’iniziativa. Si trattava però anche di rifiutare « il docente » specializzato sulla nocività, o il corso di laboratorio istituzionalmente finalizzato a questo — momenti troppo facilmente « ghettizzabili » —, ma di riuscire piuttosto a polarizzare in qualche modo tutta la facoltà, a garantire uno spazio disponibile a tale lavoro in tutti i corsi. Queste cose sono almeno in parte riuscite. Vi è stato naturalmente uno scontro iniziale (anche, e soprattutto, con i «docenti democratici»!). Si può dire però che ora vi è uno spazio nella facoltà. E’ vero che siamo solo in due docenti a seguire realmente il corso, coordinando due gruppi sui problemi del rumore e delle polveri, il cui lavoro verrà riconosciuto e quindi « fiscalizzato » per uno dei corsi di laboratorio del secondo biennio; ma alcune richieste di fondo per il prossimo anno sono poi state appoggiate e accolte e vi è la disponibilità di altri docenti e ricercatori, per ora solo verbale, ma non trascurabile forse qualora crescesse la domanda operaia. Qui forse sta per ora il punto più debole, fin d’ora la partecipazione e la gestione operaia sono mancate. Si sta studiando la possibilità di proporre per il prossimo anno un corso delle 150 ore, che dividerebbe il corso stesso di laboratorio per gli studenti già avviato, ma differirebbe dalle proposte del passato per il fatto di essere ora un momento di generalizzazione e di elaborazione comune di un intervento reale (almeno speriamo) nelle fabbriche.
Ho volutamente sorvolato sulle conclusioni non solo per ragioni di spazio, tattiche (e forse anche di superstizione), ma anche perché le condizioni di realizzabilità di una proposta di questo tipo dipendono troppo da tutte le altre condizioni locali specifiche. Mi sembra comunque — e questo è il dato più interessante per un dibattito sulla didattica — che quanto è stato fatto non possa in nessun caso chiamarsi un insuccesso: semmai potrà tramutarsi in una sconfitta, ma questo è nel gioco della lotta politica (e non è scollegato alle considerazioni della mia lettera precedente sulla situazione del movimento e degli strati emergenti). E comunque mostra che vi è lo spazio per costruire oggi iniziative concrete e avanzate.
Questo è il mio contributo concreto al tema aperto da « Sapere »: e ora vorrei dibattere realmente, confrontarmi con altre esperienze, con critiche e contributi.