Lelio Basso “LA COMUNE DI PARIGI” – “Il Significato della Comune di Parigi per noi oggi”

Nato a Varazze (Savona) il 25 dicembre 1903, deceduto a Roma il 16 dicembre 1978, avvocato, studioso marxista, parlamentare e dirigente socialista.
Dalla Liguria la sua famiglia si era trasferita a Milano nel 1916. Dopo aver frequentato il Liceo nel capoluogo lombardo, nel 1921 lo studente si iscrisse, a Pavia, alla facoltà di Legge e, nello stesso tempo aderì al PSI. Vicino a Piero Gobetti durante l’esperienza di Rivoluzione Liberale, quando il fascismo ne stroncò l’opera, Basso proseguì nell’attività di formazione culturale dei giovani intellettuali antifascisti dirigendo, dal 1925 al 1928, la rivista Pietre. Nell’aprile del 1928 il giovane avvocato, arrestato dalla polizia a Milano, fu confinato a Ponza. Non si abbatté e studiò per conseguire, nel 1931, la laurea in Filosofia con una tesi su Rudolf Otto.
Per breve tempo riprese la professione di avvocato a Milano, ma riannodò anche i contatti politici costituendo, nel 1934, il “Centro interno” socialista con Rodolfo Morandi, Lucio Luzzatto ed Eugenio Colorni. Nel 1940, immediatamente dopo l’ingresso dell’Italia in guerra, per Basso, nuovo arresto e l’internamento nel campo di concentramento di Colfiorito (Perugia).
È il 10 gennaio del ’43 quando, con Luzzatto, Veratti e altri antifascisti, l’indomabile avvocato partecipa alla costituzione del Movimento di unità proletaria (MUP) che, dopo la caduta di Mussolini, si fonderà con il PSI, dando vita al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Sul finire del 1943, Basso dà alle stampe il giornale clandestino Bandiera Rossa e partecipa attivamente alla Resistenza fondando, con Sandro Pertini e Rodolfo Morandi, l’Esecutivo Alta Italia del PSIUP, di cui assume la responsabilità organizzativa.
Dopo la Liberazione l’elezione alla vicesegreteria del suo partito e quella alla Costituente. Farà parte della Commissione dei 75 che redigerà il testo della Costituzione, che diventerà la suprema legge della Repubblica nel 1948. Deputato in tutte le legislature fino al 1968, fu poi eletto senatore nel 1972 e nel 1976.
Risorsa dei momenti difficili, Basso fu segretario del PSI dopo la scissione saragattiana del 1947. A lui si devono anche la fondazione e la direzione delle riviste Stato Operaio, Socialismo, Problemi del Socialismo. Portano la sua firma opere importanti (tra cui Storia del PSI, Il Principe senza scettro, Due totalitarismi: fascismo e Democrazia cristiana), e la cura di molti classici del marxismo italiani e stranieri. Lelio Basso è stato membro del Tribunale internazionale presieduto da Bertrand Russell, creato per giudicare i crimini americani nel Vietnam. Ha promosso, nel 1973, la costituzione di un secondo “Tribunale Russell” sulle repressioni in America Latina. Nello stesso anno diede vita a Roma alla Fondazione Issoco – Istituto per lo studio della società contemporanea – che oggi porta anche il suo nome e quello della moglie Lisli. Suo il lavoro per la preparazione del “Tribunale permanente dei popoli”, costituito nel 1979, dopo la morte di Lelio Basso.

Di Lelio Basso presentiamo due scritti molto significativi :

“Il Significato della Comune di Parigi per noi oggi”

“La Comune di Parigi”

Lelio Basso ha anche raccolto e contribuito a far conoscere una cospicua documentazione sulla Comune di Parigi che si trova nella sua fondazione.
In occasione del Centenario della sua nascita, è stato aperto in rete un sito – www.leliobasso.it – nel quale sono consultabili i principali scritti dell’intellettuale e dirigente socialista.

Il 18 marzo ricorre il 140° anniversario dell’insurrezione che segnò l’inizio della Comune di Parigi. Non sappiamo se qualcuno si ricorderà di questa ricorrenza. Ben altro era il clima politico culturale che si respirava in occasione del centenario. Controlacrisi.org vi propone un discorso commemorativo tenuto da Lelio Basso il 6 dicembre 1971. Basso fu chiamato dal Comune di Bologna a tenerlo in un consiglio riunito in seduta straordinaria per la celebrazione del centesimo anniversario della Comune di Parigi.
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Confesso che ho esitato ad accogliere l’invito del comune di Bologna per questa rievocazione della Comune di Parigi. È un fatto storico di tale importanza e ha suscitato una tale massa di problemi, molti dei quali ancora dibattuti dalla critica storica, che esige, per essere affrontato seriamente, non solo una vasta, minuziosa conoscenza specifica, ma una larghissima conoscenza storica. Ed è particolarmente arduo per me, che non sono uno storico, rievocare la Comune proprio in questa città dove, come ricordava or ora il sindaco, la tragedia della Comune ha inciso immediatamente e profondamente sul movimento operaio locale già vivo allora, dove c’è un’università in cui, sotto la guida eminente del professor Dal Pane, che ci ha onorato oggi della sua presenza, si è formata una scuola che affronta i problemi della storia del movimento operaio e contadino, dove infine c’è, a presiedere questa seduta, il vostro sindaco che è egli stesso uno storico di grande valore del movimento operaio. Ciò mi ha indotto a dare alla mia rievocazione il taglio che mi è più congeniale, quello del politico piuttosto che quello dello storico, per cercare di cogliere in questa vicenda di un secolo fa problemi che ancora travagliano il nostro movimento e con i quali siamo chiamati, si può dire, ogni giorno a confrontarci. In altre parole cercherò di vedere la Comune come una finestra aperta sull’avvenire, attraverso la quale sforzarmi di dare, per chi la sappia intendere, una risposta alle domande che continuamente affollano la nostra mente.

Comincerò con lo scostarmi in una certa misura dalle interpretazioni ormai canonizzate di Marx e di Lenin e, ancor più, dal raffronto fra l’esperienza della Comune e gli schemi rivoluzionari tracciati da Marx o da Lenin, che sono in generale i punti di riferimento degli storici del movimento operaio, specialmente di coloro che han l’aria di considerare che il movimento operaio tanto più diventa maturo e cosciente, tanto più progredisce, quanto più si avvicina al pensiero dei “maestri”, dimenticando che i “maestri” stessi hanno appreso dall’esperienza e che senza il movimento reale non sarebbero esistiti neppure Marx e Lenin. Tenterò piuttosto di ricollegare la Comune non tanto al filone di pensiero elaborato dai teorici del movimento operaio quanto piuttosto alla tradizione rivoluzionaria popolare, una sorta di memoria collettiva del popolo, un deposito di sentimenti, di aspirazioni, di tradizioni, di idee rivoluzionarie, che affonda le sue radici nel settecento, si radica nell’animo delle masse nel corso della rivoluzione francese, si tramanda e si arricchisce di generazione in generazione, ramificandosi in mille rivoli nelle società segrete e nella stampa per poi ricomporsi nei grandi moti popolari, specialmente nel ‘48 e nella Comune. A questo deposito della tradizione rivoluzionaria popolare ciascuno ha apportato il contributo originale delle sue idee, ma ciascuno – anche i grandi pensatori – ha attinto l’una o l’altra idea, o addirittura il quadro generale della visione rivoluzionaria.

I diversi filoni rivoluzionari

La prima notazione che vorrei fare a proposito della Comune è che essa non è né una rivoluzione proudhoniana né una rivoluzione marxista, non ha un pensatore che l’abbia ispirata né una scuola cui richiamarsi, non ha un leader che l’abbia guidata, ma è lo sbocco collettivo di una tradizione collettiva che recava con sé questo immenso bagaglio di elaborazione popolare, questo deposito di aspirazioni e di rivendicazioni di cui sarebbe difficile ricercare, caso per caso, la paternità, perché sono il prodotto di un secolare processo storico, di cui sono state protagoniste le masse. Basta scorrere la stampa della Comune, anche soltanto attraverso l’ottima antologia pubblicata proprio in occasione del centenario da una giovane studiosa[1], per rendersi conto che, sotto il profilo della formazione storica del complesso patrimonio di idee rivoluzionarie che hanno allora m

obilitato il popolo di Parigi, siamo in presenza di un vasto materiale in parte ancora da esplorare ma certo in larga misura ancora da studiare per ricostruire i vari filoni che si sono intrecciati e fusi nell’esplosione delle dieci settimane rivoluzionarie della Parigi 1871. E credo che proprio questo sia il metodo migliore per intendere l’origine storica dei movimenti rivoluzionari: non limitarsi a puntare lo sguardo sulle vette emergenti dei grandi pensatori e maestri, ma affondarlo nelle profondità del sottosuolo per ritrovarvi i filoni sotterranei che si continuano al di là delle singole crisi e studiarvi i processi in cui si fondono le motivazioni più diverse e si liberano energie lungamente contenute. Naturalmente non posso dedicarmi a quest’analisi nella mia rievocazione odierna, ma spero di riuscire ad indicarne le grandi linee quali emergono con sufficiente chiarezza dal vasto lavoro compiuto dagli storici e giungere per questa via a individuare i problemi principali sollevati dalla Comune e che sono tuttora vivi e presenti al nostro spirito. Da questo punto di vista la Comune è un’esperienza storica che ci offre la possibilità di analizzare quasi in vitro come può nascere una rivoluzione e come può prendere un certo indirizzo anche se la sua matrice non univoca, ma articolata e varia, racchiuda in sé potenzialità di sviluppo diverse, come è del resto di quasi tutti i movimenti rivoluzionari.

Il primo di questi vari filoni che fan capo alla Comune è quello della democrazia repubblicana, vale a dire della continuità storica con la tradizione sanculotta della grande rivoluzione del XVIII secolo. Allora il popolo minuto di Parigi, quello che si chiamava genericamente le peuple, fatto in gran parte di artigiani e di bottegai, di piccola gente ma non di operai di fabbrica in senso moderno, era rimasto traumatizzato dalla caduta di Robespierre e dalla reazione termidoriana che aveva consegnato il potere nelle mani della grande borghesia e aperto le porte all’impero di Napoleone, abbattendo e rovesciando i grandi ideali rivoluzionari proclamati dalla costituzione del ‘93. Questo trauma della rivoluzione interrotta, degli ideali soffocati sul nascere, rimane nella memoria collettiva del popolo parigino, insieme con la speranza di riprendere il cammino rivoluzionario: rimane soprattutto negli strati inferiori della società su cui l’avanzata del capitalismo accumula progressivamente nuove oppressioni e nuove forme di sfruttamento. Non solo questa memoria collettiva, questo bisogno di far rivivere la rivoluzione pre-termidoriana, riemerge nelle giornate rivoluzionarie del 1830 e del 1848, ma si ritrova lungo tutto l’arco di tempo che corre fino alla Comune: Blanqui, considerato per decenni il capo dei rivoluzionari francesi, “l’enfermé”, il “prigioniero” per definizione, è la personificazione di questa memoria collettiva, e non per nulla ha passato una quarantina d’anni in prigione e il resto della sua vita a ordire congiure e preparare insurrezioni per riprendere il filo interrotto della storia.[2]

Anche se sotto il secondo impero l’industrializzazione ha fatto notevoli progressi ed è nata in Francia la classe operaia moderna, questo popolo minuto di Parigi che ne forma il tessuto pre-capitalistico, dura ancora e si dibatte in condizioni difficili, donde la spinta a scuotere le varie oppressioni che pesano su di lui: l’oppressione della grande borghesia che con i nuovi rapporti capitalistici distrugge o mina le basi della vecchia bottega artigiana e del vecchio negozio, l’oppressione della banca che si presenta con il volto anonimo delle scadenze, dei tassi, dei protesti, con le ferree leggi

dell’interesse, l’oppressione dei padroni di casa e degli speculatori edilizi che si impinguano con la rendita pesando la mano sugli affitti, l’oppressione dell’impero, dell’apparato burocratico-militare che non solo costa sempre più caro ma finanzia l’industrializzazione con le imposte che gravano sui lavoratori. In questo senso il richiamo alla tradizione rivoluzionaria democratico-repubblicana è un elemento positivo perché mobilita energie rivoluzionarie non socialiste, che non sarebbero quindi disposte a battersi per il socialismo ma sono disposte a battersi contro l’ordine politico e sociale esistente e recano l’apporto del loro numero ad una lotta comune, ma è al tempo stesso un elemento di freno per altre potenzialità rivoluzionarie, quelle soprattutto che si richiamano all’Internazionale e che hanno aspirazioni più o meno vagamente socialiste.

La presenza attiva della tradizione democratico-rivoluzionaria si manifesta subito, prima ancora della Comune: due giorni dopo la sconfitta di Napoleone a Sedan e la sua resa ai prussiani, la repubblica è proclamata a Parigi il 4 settembre 1870 ed è significativo che la proclamazione avvenga non dal palazzo imperiale o dalle sedi governative, ma in municipio, all’Hôtel de Ville, perché è all’Hôtel de Ville che si è annunciata la vittoria della rivoluzione anti-borbonica del 1830 e di quella repubblicana del 1848, e sono questi ricordi del passato che dominano l’anima collettiva della folla in tumulto. Altri segni più evidenti di questa presenza del passato nel movimento rivoluzionario li troviamo nel ritorno sempre più frequente al calendario repubblicano: già nel 1870 compaiono giornali che contano gli anni a partire dal 1792 e indicano i mesi con la terminologia rivoluzionaria, materializzando in questa forma espressiva la continuità che vogliono stabilire con la “rivoluzione interrotta” 75 anni prima [3]. E insieme con il calendario ritornano titoli famosi: il “Père Duchêne”, celebre personaggio mercante di fornelli, che aveva dato il titolo a molti giornali dell’epoca rivoluzionaria, e in particolare a quello di Hébert (che era stato, insieme con l’“Ami du peuple” di Marat, forse quello che aveva maggiormente contribuito a mobilitare le masse popolari), riappare e cerca di imitare il caratteristico stile plebeo di Hébert. In questo richiamo a Hébert, come leader delle masse popolari rivoluzionarie, si riconoscono soprattutto i blanquisti.

Ma, come abbiamo detto, questo ricordo giacobino è anche un limite per la Comune che deve affrontare problemi diversi da quelli di 80 anni prima e dovrebbe saper trovare nuove soluzioni e nuove parole d’ordine. Gli elementi socialisti e internazionalisti avvertono l’equivoco che c’è in questo rifarsi eternamente al passato (una malattia da cui stranamente sono in generale affetti coloro che si considerano rivoluzionari, ma che, invece di guardare al futuro che dovrebbero costruire, si sforzano di imitare il passato) e il freno che queste posizioni rappresentano per le conquiste, soprattutto sociali, che pur sarebbero possibili. “Il XIX non è un secolo povero che abbia bisogno di regali. Siamo noi stessi. Per quanto grandi siano stati i nostri padri, noi ci rimpiccioliamo copiandoli. Non possiamo essere le scimmie di quei leoni”, protesta Vacquerie[4], E Courbet: “Desidero che tutti i titoli o parole appartenenti alla rivoluzione dell’89 e del ‘93 non siano applicati che a quella epoca (…) adoperiamo i termini che ci suggerisce la nostra rivoluzione[5]”. E nelle sue memorie scriverà più tardi il comunardo Lefrançais: “Fortunata la Comune se non avesse avuto affatto tradizioni rivoluzionarie [6]”. Se questo è certamente vero, e se il lato negativo della tradizione fu indubbiamente grave, non può tuttavia non riconoscersi che questa stessa tradizione rappresentò una grande forza mobilitatrice e che, non per caso, ancora una volta il “Père Duchêne” fu, accanto al giornale di Vallès, il giornale più letto fra quelli della Comune.

Da qui un primo insegnamento: che in un sommovimento rivoluzionario bisogna saper analizzare i diversi momenti della rivolta, quelli che esprimono la ribellione delle masse all’ordine esistente, che possono essere della più diversa natura, e il momento dell’egemonia, della direzione politica, che deve saper imprimere il suo suggello e la sua conclusione al processo rivoluzionario. Nel caso della Comune, questo momento dell’egemonia è mancato.

Una seconda componente molto forte della spinta rivoluzionaria sono le tradizioni municipali di Parigi, se intendiamo qui la parola “municipali” in un senso non gretto e non ristretto. La città di Parigi è stata infatti sempre in conflitto con l’autorità statale: dallo scabino

Etienne Marcel del XIV secolo fino alla Comune del 1793 il contrasto non è mai cessato fra il potere centrale, che vuole assicurarsi una capitale tranquilla, che può concedere la franchigia dell’autogoverno a qualsiasi altra città o borgo, magari ad uno sperduto villaggio di poche centinaia di anime, inc

apaci di turbare la quiete della Francia, ma vuole governare direttamente Parigi, senza lasciare spazio all’autogoverno popolare che potrebbe creare problemi e tensioni assai pericolose, e, per contro, la volontà del popolo di Parigi, della città più ricca di fermenti economici e culturali, ma anche più carica di tensioni sociali, che si considera maggiorenne e vuole autoamministrarsi e non subire il dominio di un potere autoritario ed accentratore, estraneo ai problemi del popolo.

Questa tensione fra gli abitanti di Parigi, con i loro problemi e le loro aspirazioni all’autogoverno, e l’autorità centrale che pure risiede in Parigi, corre lungo secoli di storia: il nome “Comune” riassume appunto questa aspirazione all’autonomia, perché questo nome significava, secondo la definizione datane dalla grande Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, “una specie di società che gli abitanti o borghesi d’uno stesso luogo contraggono fra di loro con il permesso del loro signore, per mezzo della quale formano tutt’insieme un corpo, hanno diritto di riunirsi e deliberare dei loro affari comuni, di scegliersi dei funzionari per governarsi, percepire i redditi comuni, avere un sigillo e una cassa comuni, ecc.[7]”. Parigi non aveva mai ottenuto dai re di Francia questa carta o concessione di “comune”: fu perciò con tanto maggior forza che il principio della “comune”, cioè dell’autogoverno, si fece valere durante la grande rivoluzione, dopo la caduta della monarchia, e si contrappose anche al centralismo autoritario dei giacobini che governavano la Francia. Fu soprattutto il popolo minuto che si fece portatore di queste esigenze, il popolo su cui gravavano essenzialmente i sacrifici imposti dalle circostanze, dalla guerra, dal caro-vita: non a caso, come avvertiva già l’Enciclopedia, “comune” significava talvolta proprio il popolo minuto.

La Comune di Parigi era stata la punta avanzata della grande rivoluzione e il suo ricordo rievocava la forza rivoluzionaria del popolo parigino, che non vuole essere governato dai funzionari del potere centrale, si tratti di potere regio, imperiale o anche repubblicano. Si aggiunga a ciò che Napoleone III era stato eletto presidente della repubblica con il voto dei contadini e, pur avendo fatto una politica di industrializzazione a beneficio della grande borghesia, aveva trovato nelle campagne la sua base di massa. Come poi è accaduto anche in Italia, i governi si reggevano sull’alleanza fra la borghesia industriale e finanziaria da un lato e i notabili delle campagne dall’altro, quelli che Parigi chiama spregiativamente i “rurali”. Ora l’assemblea versagliese eletta dopo la caduta di Napoleone III, l’assemblea che affiderà a Thiers la direzione del potere esecutivo e contro cui combatterà la Comune, è appunto un’assemblea composta prevalentemente di “rurali”, cioè di notabili delle campagne eletti con voti contadini: sono i discendenti degli aristocratici che dopo la restaurazione del 1815 si sono fatti indennizzare dallo stato francese l’esproprio delle terre operato dalla rivoluzione, sono il fior fiore della reazione francese. Sono quindi a più titoli gli avversari naturali della Comune: perché rappresentano l’aristocrazia reazionaria contro cui ha combattuto e vinto la grande rivoluzione e hanno poi voluto la loro rivincita, perché sono i rappresentanti di interessi “rurali”, lontani da quelli del popolo minuto di Parigi, perché tentano ancora una volta di imporre un potere centrale autoritario contro l’autonomia della capitale.

Lo scontro sarà pertanto inevitabile, tanto più che la caduta dell’impero e la proclamazione della repubblica il 4 settembre 1870 è stata voluta soprattutto da Parigi. Si è trattato, scrive Bourgin, di “una rivoluzione nazionale a quadro municipale: così si consolida il rito del 1789, del 1830 e del 1848. Niente di strano che risorga, se non sulle labbra, almeno nel cervello dei rivoluzionari trionfanti, questa parola di Comune, dimenticata da circa un secolo, che risale dalle profondità del medioevo per suscitare speranze confuse della patria felice e della giustizia realizzata [8]”. L’idea si fa strada nei club, e già il 22 settembre il comitato centrale dei 20 arrondissements lancia un manifesto in favore di una “Comune sovrana, che attui rivoluzionariamente la disfatta del nemico e faciliti in seguito l’armonia degli interessi e l’autogoverno diretto dei cittadini [9]”. Nella notte dal 5 al 6 gennaio lo stesso comitato lancia la famosa affiche rouge in cui si afferma che “la municipalità o Comune, comunque la si chiami, è l’unica salvezza del popolo, il suo solo ricorso contro la morte “[10]. Questa rivendicazione della Comune oscilla continuamente fra la sem

plice autonomia comunale e la comune rivoluzionaria e anche in quest’equivoco è racchiusa una forza mobilitatrice di larghe masse, ma anche una fonte di contrasti futuri.

Tuttavia può dirsi che, a poco a poco, la parola Comune si arricchisca di contenuto sociale. Nel primo numero del giornale “La comune” del 29 ventoso 79 (20 marzo 1870) si dice: “La Comune è l’ordine, è l’economia nelle spese, la riduzione delle imposte, è la porta aperta a tutte le riforme sociali che s’impongono da sole e che le istituzioni monarchiche sono impotenti a realizzare; è, in una parola, l’era della rivoluzione violenta chiusa e la guerra civile resa impossibile [11]”. Qui non siamo ancora usciti dal vecchio quadro democratico-repubblicano: stato meno costoso e quindi imposte diminuite, fine del potere dispotico e quindi “porta aperta” alle riforme e fine di ogni rivoluzione. Due giorni dopo il “Journal officiel” parla della Comune come assemblea cittadina, che corrisponde al parlamento nazionale, ma aggiunge che quest’assemblea dev’essere egualmente “la prima pietra del nuovo edificio sociale (…) la città libera nel paese libero”. Il 6 aprile lo stesso giornale dice: “Parigi non aspira che a fondare la repubblica e a conquistare le sue franchigie comunali, lieto di fornire un esempio alle altre comuni di Francia”. Anche qui l’accenno al “nuovo edificio sociale” è ancora vago: la repubblica e le franchigie comunali sono le chiavi che devono aprire tutte le porte. In altre parole, pur avvertendo la presenza di problemi sociali da risolvere, i fautori dell’autonomia comunale considerano che la soluzione di quei problemi non sia che un aspetto particolare implicito nel nuovo ordine che l’autonomia comunale porta necessariamente con sé. E l’accenno alle altre comuni di Francia è una manifestazione di quella tendenza a concepire il novus ordo come una federazione di comuni nel quadro di una visione federalistica proudhoniana che è una delle ideologie dominanti della sinistra francese a quell’epoca, accanto e contro la tendenza giacobino-centralistica che è pure largamente rappresentata in seno alla Comune. Vedremo tuttavia fra un momento come anche la tendenza a concepire i problemi sociali non soltanto come aspetti subalterni del problema comunale, ma in una dimensione autonoma e di proporzioni crescenti, verrà ad assumere a poco a poco un peso sempre più rilevante.

Prima tuttavia di esaminare la componente sociale del moto comunardo, dobbiamo considerare altre due componenti che hanno radici più lontane. La prima di queste è il patriottismo, e anch’essa si ricollega alla grande rivoluzione. Quando le armate monarchiche europee invadono la Francia per soccorrere Luigi XVI, il governo rivoluzionario mobilita le masse francesi, e quest’esercito improvvisato e male equipaggiato, questi soldati, magari scalzi e straccioni, sconfiggono a Valmy gli eserciti regolari. È la vittoria popolare sui generali multidecorati e formati nelle accademie militari, è la vittoria della volontà rivoluzionaria sulla tecnica militare tradizionale, quella vittoria che farà esclamare a Goethe “da questo giorno comincia una nuova storia” e farà esaltare da Victor Hugo i gloriosi soldati del ‘93. Quando l’esercito imperiale è sconfitto a Sedan e Napoleone III fatto prigioniero, quando le armate prussiane investono e assediano Parigi, la leggenda gloriosa della grande rivoluzione esplode di nuovo nell’animo del popolo parigino. Blanqui, il rivoluzionario Blanqui, fonda un giornale il cui titolo ne svela subito lo slancio patriottico, “La patrie en ranger”, la patria in pericolo; le nuove giornate rivoluzionarie del 31 ottobre e del 22 gennaio si fanno su parole d’ordine patriottiche, come, per esempio, “leva in massa”, o “abbasso l’armistizio”.

La Parigi del ‘70-‘71 non può essere inferiore alla Francia di 80 anni prima, la Francia del ‘92-‘93, la Francia di Robespierre: l’esercito regolare è stato battuto, si mobiliti l’esercito popolare, si faccia di nuovo appello al sentimento patriottico, si ributti oltre frontiera l’esercito invasore. È in nome della patria in pericolo, non in nome del socialismo, che cresce il brontolio che preannuncia lo scoppio dell’insurrezione. Nel primo numero del “Vengeur” scrive Félix Pyat: “La repubblica è la sovranità del popolo, il diritto al lavoro; è Strasburgo e Metz resi alla Francia; è Hoche e Danton; è la patria grande e libera. È 1792… Sarà 1871”. In questa visione di Pyat, la repubblica è tutto: ha anche un certo contenuto sociale (“il diritto al lavoro”, ricordo delle giornate rivoluzionarie del ‘48), ma è soprattutto la patria libera, l’Alsazia e Lorena liberate, è Danton, tribuno della rivoluzione, e Hoche, il generale dell’esercito rivoluzionario morto giovanissimo e che simboleggia, assai più di Bonaparte divenuto imperatore, le glorie del popolo in armi. Ecco dunque, in queste tre righe di Pyat sintetizzate alcune delle componenti principali che contribuiranno a forma

re il moto rivoluzionario della Comune. Ed ecco messa in evidenza proprio quell’unità di momento nazionale e momento sociale che troviamo ancor oggi presente nelle rivoluzioni del terzo mondo, dove sarebbe difficile separare con un taglio netto l’uno dall’altro, anche quando si autodefiniscono socialiste o comuniste.

Una quarta componente più originale, anche se essa pure trova le sue radici nella grande rivoluzione, è l’aspirazione alla democrazia di base, il bisogno di partecipazione. Sotto la spinta dell’industrializzazione promossa da Napoleone III, la Francia, e soprattutto Parigi, sta cambiando volto. Nascono nuovi bisogni, la vita dell’uomo si fa più complessa, ma sempre più difficile diventa trovare una risposta ai bisogni nuovi e ai vecchi. L’uomo, soprattutto l’operaio che lavora nella fabbrica, ma a poco a poco anche l’artigiano e il bottegaio, perde il contatto umano con la realtà, perde il contatto con i centri di potere da cui dipendono le sue sorti. Il diritto di voto, la democrazia rappresentativa che attraverso il diritto di voto si esplica, non sono sufficienti: come possono i ceti meno abbienti, i non privilegiati, gli oppressi riconoscersi nei deputati che sono, lo abbiamo già detto, in gran parte dei notabili rurali, o addirittura grandi industriali, come Schneider che presiede contemporaneamente il corpo legislativo e il Comité des Forges? Come non ricorrere con la mente, in un momento di grave crisi nazionale, ai club della rivoluzione dove i cittadini discutevano i problemi stessi che avrebbero discusso i loro deputati, o, meglio ancora, alle “sezioni” che si mobilitavano, occorrendo, anche contro l’assemblea rivoluzionaria? Come dimenticare la diretta influenza del popolo parigino sulle decisioni prese a livello assembleare, il contatto continuo fra il popolo e il potere?[12] L’esperienza del ‘48 e quella successiva avevano purtroppo confermato che il suffragio universale, rivendicato come una grande conquista democratica, può rivelarsi anche uno strumento reazionario se le masse degli elettori non hanno una matura coscienza politica e possono essere facilmente manipolate[13]. E quale altro processo di maturazione esiste, quale altro modo di render le masse consapevoli e pronte ad affrontare i loro problemi se non la partecipazione, se non il ricorso a forme di democrazia diretta che controllino e correggano la democrazia delegata? È purtroppo un’esperienza che abbiamo visto confermata anche dopo, che si conferma del resto ogni giorno in molti paesi di nuova indipendenza, dove il ricorso a forme di parlamentarismo occidentale non è che una mistificazione per coprire un regime oligarchico che vuole rivestirsi di apparente legittimità democratica.

La partecipazione di base è quindi un’esigenza fortemente sentita, specialmente in quegli anni di transizione in cui l’industrializzazione crea nuovi problemi e nuovi ceti sociali, spesso in condizione precaria, mentre distrugge i vecchi equilibri e toglie i supporti esistenti della precedente situazione. Vediamo così affiorare, già prima della guerra, proposte nuove di partecipazione che sottolineano questo nuovo bisogno. Interessante, a questo riguardo, è l’iniziativa di un giovane operaio del Creusot di origine italiana, Adolfo Assi, che si fa promotore della rivendicazione da parte degli operai del diritto di gestire, attraverso un organo di loro elezione, l’amministrazione della cassa di soccorso, il cui patrimonio era formato anche con una trattenuta del 2,50% sui salari. La direzione licenzia Assi: ne segue un’agitazione, con scioperi, intervento della truppa, costituzione di un comitato permanente che rivendica a sua volta la creazione di un consiglio di garanzia dei diritti dei lavoratori. Lo sciopero è stroncato, Assi è arrestato, il comitato di sciopero sciolto, e una parte degli operai aderisce all’Internazionale, aprendone una sezione al Creusot. Le riunioni di massa si moltiplicano anche altrove: nella “Revue des Deux Mondes” del 1° marzo 1870, Leroy-Beaulieu parla dell’impressione profonda che gli hanno lasciato le riunioni di Belleville, il quartiere operaio di Parigi che sarà l’anno dopo l’ultimo baluardo di resistenza della Comune contro l’aggressione versagliese: “3.000 persone, fra cui molte donne con bambini giovanissimi in braccio, questa folla riunita in uno stesso sentimento di fraternità e di speranza, di calma piena di serenità, tutto quest’aspetto esteriore dimostra come

il socialismo si è impadronito delle immaginazioni e dei cuori in mezzo alle classi lavoratrici”.

La presenza delle donne, notata da Leroy-Beaulieu è un altro segno di questo risveglio, di questo senso emergente di responsabilità e di questo bisogno di partecipazione che si estende a tutta la classe lavoratrice e che dà vita, con lo scoppio della guerra e la proclamazione della repubblica, a una fioritura di comitati, alcuni dei quali eserciteranno poi un ruolo decisivo nella proclamazione della Comune. E fra questi comitati sorgono anche dei comitati femminili, sorge l’unione delle donne sotto il nome di “Unione delle donne per la difesa di Parigi e per le cure ai feriti”, ma nonostante il nome esclusivamente patriottico e il compito limitato che ne risulta, è un comitato che mobilita le più vaste energie femminili per i compiti più diversi e che anch’esso avrà un peso sugli avvenimenti di cui ci occupiamo. Non per nulla la Comune si distingue per la larga partecipazione femminile che riesce a suscitare e spesso le donne saranno in prima fila nella lotta, anche sulle barricate: la propaganda avversaria chiamerà queste donne rivoluzionarie con il nome di pétroleuses, come se esse fossero le responsabili degli incendi, mentre quello che interessa qui sottolineare è la presa di coscienza dei propri diritti e del proprio ruolo nella società che le donne acquistano in massa nel corso della lotta[14].

Ma naturalmente è nel campo maschile che questo bisogno di partecipazione si manifesta con maggior forza: nei mesi che separano la caduta dell’impero (4 settembre 1870) dall’avvento della Comune (18 marzo 1871) si assiste ad una fioritura continua di comitati di base, forme nuove di partecipazione, di democrazia diretta che riuniscono uomini secondo le affinità di quartiere, di mestiere, di interessi, di ideologia. Assistiamo, come dice Decouflé, a un “secondo ritorno in forza, dopo il giugno ‘48, della storia delle masse, inaugurata nei tempi moderni dal 1793[15]”. È una nuova vita che nasce nella capitale, ricca di fermenti democratici, sociali, rivoluzionari; è praticamente il fondamento di rapporti sociali nuovi, umani nel pieno senso della parola, che viene posto ogni giorno come reazione al fallimento del vecchio ordine politico che ha portato la Francia alla disfatta e all’umiliazione. Come accadrà in Italia dopo l’8 settembre 1943, i francesi, e soprattutto i parigini, sentono la necessità di prendere in mano da sé i propri destini, di rompere con il passato, di ricostruire dal basso una Francia democratica perché solo una Francia democratica può sperare ancora di respingere l’invasore o di allontanare le conseguenze della disfatta inaugurando una nuova vita.

Spicca, in questo fermento di vita democratica, la guardia nazionale, cioè il popolo in armi. Il governo ne ha autorizzato la costituzione ma avrebbe voluto limitarla a una ventina di battaglioni; il popolo però accorre in massa, ogni quartiere di Parigi forma i suoi battaglioni il cui numero continua a moltiplicarsi senza che il governo riesca a frenarne la crescita. Arrivano ad essere più di duecento, e, quel che è più significativo, si armano con cannoni che non sono di proprietà governativa ma vengono acquistati per sottoscrizione popolare: sono cannoni che appartengono alla guardia e sarà per difendere questi cannoni – simbolo del popolo in armi che a sua volta è simbolo di democrazia – che scoppierà la rivolta del 18 marzo. E poiché è simbolo di democrazia, la guardia nazionale elegge i suoi organi direttivi, sicché a poco a poco, quasi spontaneamente, viene formandosi un comitato centrale della guardia nazionale, che sarà appunto un organismo eletto, espressione autentica della base, formato da gente pressoché sconosciuta, rappresentanti poco più che anonimi della collettività rispetto al grande pubblico, ma ben noti e ben vivi agli occhi di chi li ha eletti, che li ha scelti appunto perché li conosce personalmente. Sarà del resto questa un’accusa dei versagliesi contro la Comune, di essere diretta da gente sconosciuta, non da uomini politici noti ma da persone che nessuno ha mai sentito nominare, il cui nome non è mai ricorso sui giornali: la democrazia, “rappresentativa”, che è spesso una democrazia per burla, si rifiuta di riconoscersi in queste elezioni che hanno portato alla ribalta uomini comuni, degli uomini che sono vicini ai loro rappresentanti e ne esprimono i bisogni, i

desideri e le ansie, perché sono uomini come loro con gli stessi bisogni, gli stessi desideri, le stesse ansie.

Accanto a questo comitato centrale della guardia nazionale, svolge un ruolo di primo piano negli avvenimenti anche il comitato centrale dei venti arrondissements, dei venti circondari in cui Parigi era divisa e in ciascuno dei quali, ad iniziativa di elementi repubblicani e internazionalisti, si era venuto formando un comitato di difesa repubblicana: l’insieme di questi comitati darà poi vita al comitato centrale, su posizioni avanzate[16]. Saranno questi organismi i principali interpreti del popolo di Parigi, della massa che non accetta la sconfitta, che non accetta il ritorno all’antico stato di cose, che non si accontenta di un cambiamento di etichetta sulla facciata, ma vuole rinnovare profondamente il paese. Saranno i portavoce della nuova democrazia rappresentata dalla Comune.

Ultima fra queste spinte diverse che hanno confluito nel dar vita alla Comune è la spinta sociale. Ultima non nel senso che le condizioni sociali abbiano costituito l’elemento meno importante nel processo di maturazione del malcontento che ha portato alla crisi rivoluzionaria, ma nel senso che fu il meno cosciente, il meno presente nelle motivazioni ideologiche che spinsero il popolo di Parigi verso l’insurrezione. Certo, la contropartita dello sviluppo industriale favorito dall’impero era stata da un lato la formazione della classe operaia e dall’altro un aggravamento delle condizioni della piccola borghesia artigianale. In Parigi, per esempio, il numero degli operai sale da 342.000 nel ‘47 a 442.000 nel ‘66 e a 550.000 nel ‘72, mentre il numero dei padroni scende da 65.000 nel ‘47 a 39.000 nel ‘72, e ciò significa l’aumento del lavoro dipendente, l’avanzata della fabbrica a detrimento del laboratorio artigiano. Naturalmente il grado di concentrazione varia secondo i tipi d’industria: in base al censimento del ‘66 i padroni rappresentano soltanto il 4% rispetto al complesso dei lavoratori dell’industria metallurgica, mentre nell’edilizia ci sono 3 padroni per ogni 4 operai e nell’industria dell’alimentazione ci sono più padroni che operai. Ma anche gli operai veri e propri non hanno una coscienza politica legata alla propria situazione di classe: l’ideologia prevalente è quella proudhoniana che rifugge dalla lotta politica. Quanto agli artigiani e ai bottegai, essi sono le principali vittime dell’incipiente concentrazione capitalistica: in un rapporto del prefetto del Rodano del 1868 si legge: “Il piccolo commercio non resiste che difficilmente alla concorrenza delle grandi ditte e all’enormità delle spese generali, specialmente dell’affitto: la scadenza di san Giovanni ha confermato questa situazione dandole un carattere di seria evidenza; un gran numero di sgomberi hanno avuto luogo per cessazione di commercio; i piccoli commercianti non fanno una cifra d’affari sufficiente. Sono mal pagati e obbligati a fare crediti a lunga scadenza [17]”. Napoleone aveva tentato una politica di avvicinamento agli operai, una specie di cesarismo sociale, ma questa politica era fallita. E la depressione economica degli anni 1867-’68, in coincidenza con il fallimento della spedizione messicana, aveva aggravato la situazione e accresciuto l’opposizione operaia. E se l’ultimo tentativo di impero liberale, con Emile Ollivier, permette a Napoleone di ritrovare qualche consenso in seno all’opposizione borghese, l’opposizione operaia si accentua in quegli ultimi anni che vedono moltiplicarsi le sezioni dell’Internazionale, contro cui saranno intentati ben tre processi e pronunciati i relativi decreti di scioglimento. Tuttavia, se fra le nuove leve cominciano a emergere dirigenti operai di alta levatura, come Eugène Varlin, che sarà una delle figure più luminose della Comune, che sanno dare alla lotta di classe un contenuto politico, la massa dell’opposizione resterà avviluppata o in formule apolitiche come quelle proudhoniane o in formule politiche generiche, come quelle della “repubblica” e, più tardi, quella della “comune”, considerate come l’“apriti sesamo” di tutte le questioni, compresa quella sociale e di classe. Sarà solo alla vigilia della Comune che cominciano a diffondersi formule come “proprietà collettiva degli strumenti di lavoro” o altre, magari più ambiziose, ma sempre ruotanti intorno al tema della “giustizia sociale”[18].

Su queste spinte già in atto, i disagi e le difficoltà dell’assedio agiranno come un detonatore. Come nota Lefebvre, si assiste durante l’assedio a un processo di destrutturazione della società parigina, mentre si accresce il contrasto fra la città che ha sopportato i massimi sacrifici della guerra e il governo della capitolazione. I nuovi fermenti di vita cui abbiamo accennato trovano terreno favorevole soprattutto nelle condizioni di vita che la guerra, l’assedio, la carestia, il caro-vita hanno creato. Sintomatiche sono, a questo riguardo, le “ code “ davanti ai negozi, che obbligano soprattutto le donne a trascorrere lunghe ore assieme in strada, nonostante il freddo invernale[19], e dall’altro lato la milizia popolare, cioè la guardia nazionale, che ha trasformato i cittadini in soldati, anch’essi riuniti nei battaglioni della guardia e anch’essi continuamente in circ

olazione.[20] È in gran parte da questa riscoperta fraternità, da questa unità realizzata nei comuni sacrifici e nella vita comune fuori di casa, che si sprigiona la scintilla del 18 marzo.

Le caratteristiche della Comune

Non posso certo raccontare lo sviluppo degli avvenimenti che hanno portato all’insurrezione del 18 marzo e li do per conosciuti. Ricorderò solo che lo spunto finale è stato l’ordine del governo di Thiers all’esercito di asportare da Parigi i cannoni della guardia nazionale, che, come ho ricordato, non erano stati forniti dal governo ma acquistati per sottoscrizione. La guardia insorge per difendere e conservare i suoi cannoni, i soldati fraternizzano, il governo è costretto a battere in ritirata, funzionari e ufficiali ripiegano su Versailles, il popolo è padrone di Parigi.

Non c’è quindi, dietro la presa del potere da parte della guardia nazionale, e, per essa, del suo comitato centrale, nessun progetto rivoluzionario. Scriverà qualche giorno dopo Félix Pyat che la rivoluzione è stata “completamente popolare, completamente collettiva, comunale… una rivoluzione in accomandita, anonima, unanime, e per la prima volta senza gerenti. Niente di personale. Né sorpresa, né colpo di mano, né attentato, né colpo di stato… Un’opera massiccia e forte come l’autore, il popolo! Un potere naturale, spontaneo, né falsato né forzato, nato dalla coscienza pubblica della “vile moltitudine” provocata, attaccata, messa in stato di legittima difesa; un potere che non deve niente all’influenza dei nomi, all’autorità della gloria, al prestigio dei capi, all’artificio dei partiti, che deve tutto al diritto. Il governo del popolo per mezzo del popolo e a favore del popolo; il vostro governo. Tutti i membri sono sconosciuti; questo difetto è il suo merito[21]”. A parte il linguaggio del tempo e una certa enfasi di espressione, il concetto fondamentale è giusto: si tratta, come noterà qualche giorno dopo Lissagaray, di un “movimento spontaneo ma per nulla imprevisto”, di un movimento che nasceva dalle “viscere stesse del secolo[22]”.

Parlare quindi di spontaneità vuol dire, certo, escludere che la rivoluzione sia stata organizzata preventivamente da partiti, da società segrete o da capi carismatici, ma non vuol dire che sia caduta dal cielo, impreveduta, inaspettata, non legata alla storia precedente. Al contrario, essa nasce dalle viscere del secolo, essa è opera del popolo, proprio perché è lo sbocco di una serie di spinte obiettive e di prese di coscienza soggettive, di rifiuti e di lotte, che hanno portato la situazione al momento critico. È un’azione collettiva che reagisce alle circostanze e cerca nuove strade, cerca soprattutto nuove forme d’organizzazione, perché non ubbidisce a schemi preordinati, a formule accettate di partiti o di governi. È un tipico esempio di esperienza creatrice, di Selbsttätigkeit per usare l’espressione marxiana, da cui Marx cercherà di imparare la lezione e di cui riconoscerà il valore d’insegnamento, quando parlerà di forma “finalmente scoperta” di organizzazione del potere rivoluzionario.[23]

Per meglio chiarire questo problema della spontaneità, che è tuttora uno dei problemi più dibattuti in seno al movimento operaio, dirò che io ne parlo qui nello stesso spirito con cui ne parlava Rosa Luxemburg, se non nello stesso preciso significato, perché la Luxemburg militava in un partito operaio e considerava indispensabile la presenza animatrice del partito nel processo rivoluzionario, mentre nessun partito ebbe questo ruolo nella preparazione della Comune. Ma mi riferisco allo spirito della spontaneità luxemburghiana, perché anche la Luxemburg considerava che una rivoluzione doveva essere preparata soprattutto dagli avvenimenti, dai processi storici, dalle lotte già combattute, dal maturare delle contraddizioni, piuttosto che da una setta, da una cospirazione o anche da un partito politico, al quale affidava un ruolo forse ancora più importante ma situato all’interno del movimento reale, non un ruolo di deus ex machina o di demiurgo. È, se volete, la spontaneità che deriva dalla maturità della situazione, senza peraltro l’elemento meccanico e inevitabile del distacco del frutto maturo dall’albero, perché negli eventi umani maturano insieme alle circostanze anche le coscienze degli uomini che sono i protagonisti della rivoluzione e non hanno mai in sé nulla di meccanico e di fatale.

È possibile, forse anche probabile, che pure se il governo di Versailles non avesse tentato di impadronirsi dei cannoni della guardia nazionale, sarebbe bastato un qualsiasi altro incidente per provocare lo scontro: del resto il fatto stesso che il governo si fosse preoccupato di disarmare la guardia o perlomeno di privarla dei suoi cannoni è segno che vi era già un pericoloso stato di tensione.[24] E tuttavia il modo come gli avvenimenti si sono svolti, il fatto che la guardia nazionale, una volta respinto l’attacco, si sia trovata padrona di Parigi senza avere essa stessa provo

cato lo scontro, ha pesato sugli sviluppi della rivoluzione, perché ha contribuito a dare alla Comune una veste di legalità che si volle a tutti i costi salvare. Così la prima preoccupazione del comitato centrale della guardia nazionale non fu quella di sfruttare il successo e di marciare su Versailles, ma di convocare le elezioni per l’assemblea comunale allo scopo di dare a Parigi un’autorità legale che derivasse i suoi poteri dal suffragio universale. Per quanto sollecite, le elezioni poterono svolgersi solo dopo una decina di giorni, nel corso dei quali sarebbe stato forse possibile, approfittando della situazione critica in cui era venuto a trovarsi il governo per la dispersione del suo esercito, assestare a Versailles un colpo mortale, ma né il comitato centrale, prima, né la Comune eletta, dopo, vollero giocare questa carta, perché essi si consideravano abilitati a governare soltanto Parigi e volevano conquistare il resto della Francia soltanto con l’esempio di una Comune libera che avrebbe dovuto rappresentare un modello da seguire.[25]

A questo scrupolo di legalità si aggiungano le divisioni interne fra gli eletti della Comune: a parte alcuni elementi che se ne ritirarono subito, coloro che rimasero a difendere la conquista rivoluzionaria erano giacobini, blanquisti, proudhoniani, internazionalisti, e non avevano né un’ideologia né un programma comuni. Certo la confluenza di queste diverse tendenze era stata condizione di successo, perché dietro ad esse si era mossa la maggioranza del popolo di Parigi tanto per prendere le armi quanto per eleggere i propri governanti. Ma questa unione, che era condizione di successo, non poteva non diventare poi causa di incertezza, debolezze e contrasti proprio per l’incapacità che ne derivava di imprimere alla Comune un preciso indirizzo capace di diventare una forza mobilitatrice anche per la massa del popolo francese.

La maggioranza era formata da giacobini e blanquisti, alcuni vecchi rivoluzionari veterani delle barricate del 1848, altri cresciuti alla scuola di quei rivoluzionari e nel culto della rivoluzione giacobina. Negli ultimi anni dell’impero si era formato una sorta di partito blanquista, assai numeroso, ma Blanqui era stato arrestato nel corso della guerra e non era presente a dirigere i suoi adepti che facevano parte della Comune. Comunque, per questi cultori delle sacre memorie, l’idea dominante era quella del comitato di salute pubblica e della dittatura rivoluzionaria. I proudhoniani invece, che erano maggioritari in seno ai militanti operai e maggioritari anche in seno alla sezione francese dell’Internazionale, erano al contrario favorevoli a forme di associazionismo, cooperativismo, democrazia di base, federalismo. A differenza di Blanqui, che era un rivoluzionario nato, organizzatore di società segrete e di colpi di stato, Proudhon aveva combattuto soltanto con gli scritti e aveva confidato nella trasformazione pacifica della società, ma anch’egli era ormai scomparso dalla scena, morto nel 1865. Una minoranza di internazionalisti era più vicina a Marx, con cui mantenne anche un contatto durante la Comune e da cui ricevette consigli; qualcuno, come Varlin, partito da posizioni proudhoniane, era giunto più in profondità, fino ad intendere l’interdipendenza fra il momento economico, il momento sociale e il momento politico. Non mancavano neppure influenze anarchiche, piccolo-borghesi e anticlericali, ma in ultima analisi la Comune si divide in una maggioranza più preoccupata del problema del potere (giacobini, radicali, blanquisti) e in una minoranza più preoccupata di problemi sociali (p

roudhoniani e internazionalisti rivoluzionari, prevalentemente operai).[26]

Il risultato di questa coesistenza di tendenze e opinioni contrastanti fu, come ho detto, in primo luogo l’assenza di un’ideologia e di un progetto rivoluzionario. E anche questa mancanza di un progetto rivoluzionario spiega lo scrupolo di legalità cui si è accennato: i due rimproveri principali che Marx muove alla Comune sono quello della mancata marcia su Versailles e quello della mancata presa di possesso della Banca di Francia e delle sue riserve auree, che avrebbe dato alla Comune una posizione di forza rispetto al governo di Versailles. Ma in quella prima fase la Comune era soprattutto una risposta, un rifiuto, rappresentava il tentativo di instaurare una legalità repubblicana in luogo dell’oppressione tradizionale, di ridare al popolo di Parigi l’autonomia che gli era stata negata dal potere centrale: un attacco alla proprietà non era negli immediati propositi della Comune, la quale anzi, quando dovette fare ricorso al denaro della Banca di Francia, per poter pagare il soldo alla guardia nazionale, lo fece nella forma di un prestito concesso dalle “legittime” autorità della banca, cioè dal vicegovernatore rimasto a Parigi. Ma non le venne mai in mente che potesse prendersi quell’oro per diritto di rivoluzione.

Quando la Comune fu sconfitta e i suoi difensori trucidati seduta stante o mandati davanti alle corti marziali per essere poi fucilati o deportati, le accuse principali – quelle almeno di cui si servì la propaganda borghese – erano essenzialmente due: le uccisioni di ostaggi e – delitto ben più grave per un regime borghese – gli attentati alla proprietà. In verità questi poveri comunardi massacrati dai versagliesi, se possono avere delle colpe dinanzi alla storia, sono proprio quelle di non avere attentato alla proprietà, e non certo il contrario.

Nelle rivendicazioni avanzate prima del 18 marzo dai vari gruppi e comitati che poi confluirono nella Comune c’è scarsa traccia di rivendicazioni propriamente sociali: anche quando lo si fa, se ne parla come di una conseguenza logica delle trasformazioni politiche, della repubblica, della Comune. Anche negli otto giorni che separano la presa del potere (18 marzo) dalle elezioni della Comune (26 marzo) nessuna lista di candidati presenta dei programmi sociali o rivoluzionari: l’accento è sempre posto sulle libertà politiche, la democrazia, l’autonomia, il federalismo, la laicità, come sulle misure straordinarie imposte dalla guerra (in materia di fitti, di scadenze di debiti, di processi civili e commerciali, ecc., come pure in materia di difesa e di razionamento ed equa distribuzione dei viveri, ecc.). Un manifesto del comitato dei 20 arrondissements pubblicato nel “Cri du Peuple” del 27 marzo dice “di finirla per sempre con il salariato e l’orribile pauperismo”, ma si limita a tal fine a proporre generiche riforme sociali senza definirle.[27] Anche la dichiarazione del 19 aprile, approvata dalla Comune all’unanimità meno un voto quasi senza discussione, non contiene sostanziali rivendicazioni di ordine sociale. Il punto focale della dichiarazione è l’affermazione del principio comunalistico, “l’autonomia assoluta della Comune estesa a tutte le località della Francia”, che non avrà altro limite che l’eguale autonomia “per tutte le altre comuni aderenti al contratto, la cui associazione deve assicurare l’unità della Francia”; nel quadro di quest’autonomia, Parigi si riserva di realizzare per proprio conto le riforme amministrative ed economiche che le sono necessarie, di creare proprie istituzioni, di “universalizzare il potere e la proprietà, seguendo le necessità del momento, i desideri degli interessati e i dati forniti dall’esperienza[28]”.

Siamo, come si vede, al limite dell’utopia. Perché è chiaro, come Marx stesso osserva, che un’autonomia e un governo comunali come quelli che Parigi rivendica possono essere adatti solo a grandi città e non alla maggioranza dei comuni francesi, che sono piccoli comuni rurali, e perché non si può pensare ad una unità francese che sorga soltanto dalla libera e spontanea adesione di tutte le comuni. Tuttavia sarebbe troppo facile respingere semplicemente come utopistico l’ideale della Comune. Proprio perché essa rappresenta uno sforzo dell’autonomia creatrice della prassi rivoluzionaria, non poteva andare esente da errori che l’esperienza soltanto avrebbe corretto. E non c’è dubbio che la Comune si sforzò di apprendere dall’esperienza. Nata quasi senza organizzazione, senti l’esigenza di darsi un’organizzazione e cercò di farla sorgere dal basso, di farla lievitare dal tessuto sociale, fornendo in tal modo un’indicazione che rimane, a parer mio, ancora valida nelle sue grandi linee. Nonostante l’ossessivo ricordo degli anni della rivoluzione, e nonostante il comitato di salute pubblica, non risorge l’idea della dittatura giacobina su tutta la Francia: la grande rivoluzione vive piuttosto nel ricordo delle sezioni parigine, nella partecipazione del popolo in forme nuove e creative alle decisioni politiche, ed è questo retaggio democratico che viene raccomandato a tutta la Francia perché si organizzi in comuni.[29]

Accanto al grande tema spontaneità-direzione, che la Comune tenta appunto di mediare attraverso l’organizzazione di una serie di comitati, questa seconda questione, connessa con la prima, della dittatura e della democrazia, in altre parole la questione dell’organizzazione del potere rivoluzionario, è quella su cui ancor oggi dobbiamo concentrare maggiormente la nostra attenzione per ricavarne il massimo d’insegnamento, come fece già Marx in quelle insuperabili pagine, dedicate alla Comune pochi giorni dopo la sua caduta, che ci ricordava poco fa il prof. Zangheri. Come ho già detto, l’importanza della Comune per Marx risiede nel fatto che essa ci dà la risposta “finalmente scoperta” al problema ch’egli stesso si era posto dopo il fallimento della rivoluzione del ‘48-‘49, e cioè che la rivoluzione proletaria non può limitarsi ad impadronirsi del potere statale, ma deve spezzare la vecchia macchina, rompere il vecchio apparato che non può non essere un apparato oppressivo, e deve creare nuove forme di potere politico che segnino il passaggio all’estinzione definitiva dello stato. Queste nuove forme di potere politico egli non aveva mai preteso di inventarle a tavolino e aveva atteso che la Selbsttätigkeit, l’iniziativa creatrice del proletariato, affrontasse e risolvesse il problema: solo dopo quest’esperienza storica egli si accinge nel suo saggio ad esprimere in forma cosciente quello che per la Comune è stato soprattutto un momento della sua attività pratica.

L’essenza della soluzione data dalla Comune è quella di un’intensa partecipazione democratica attraverso cui la società prende in mano i propri destini, e quindi sottrae allo stato-escrescenza parassitaria i poteri usurpati, togliendogli in tal modo funzioni e scopo. L’auto-amministrazione della società è la negazione dello stato quale apparato di potere burocratico-militare-poliziesco sovrapposto alla società, e questo si esprime nell’elettività e revocabilità di tutte le cariche (funzionari, magistrati, ufficiali, ecc.), nella parificazione degli stipendi, nel più vasto diritto di critica, di discussione e di contestazione (che può arrivare appunto fino alla revocabilità in qualunque momento), nell’obbligo della resa dei conti, ecc. Solo a questo modo esercito, polizia, magistratura, burocrazia, ecc. perderanno la loro caratteristica di corpi estranei alla società, di detentori di un potere proprio, di oppressori del corpo sociale. Come scriverà Engels una ventina d’anni dopo, questa forma di governo così profondamente democratica, questa partecipazione popolare così intensa e articolata, rappresentano precisamente quella che Marx chiama la “dittatura del proletariato”, cioè la fase intermedia, di passaggio dal capitalismo al comunismo: una dittatura del proletariato ben diversa da quella che è stata presentata in altri paesi come la realizzazione del pensiero di Marx.[30]

Certo, dopo le esperienze storiche che abbiamo vissuto, sorge inevitabile la domanda: era proprio possibile realizzare la dittatura del proletariato in quella forma? O non era necessaria, almeno nel momento della crisi rivoluzionaria, una più forte concentrazione di potere, una dittatura intesa appunto come potere concentrato in poche mani? In Stato e rivoluzione, scritto nel suo rifugio al confine con la Finlandia prima della rivoluzione d’ottobre, Lenin è partito ancora una volta dall’esperienza della Comune e dalla lezione che ne aveva tratto Marx per tratteggiarci le grandi linee del futuro stato socialista, ma sotto pressione delle circostanze ha costruito poi un edificio completamente diverso, dove non si può parlare di deperimento dello stato, dove anzi polizia, magistratura, esercito, burocrazia non sono certo meno potenti di prima. Personalmente credo che Marx avesse ragione nel vedere linee maestre del futuro stato socialista non nel rafforzamento del potere centrale ma in un grande sviluppo della democrazia di base, perché egli concepiva la rivoluzione socialista come il frutto della maturazione delle condizioni storiche, oggettive e soggettive, che devono renderla possibile, ciò che invece non era accaduto per la Comune di Parigi come non è accaduto più tardi per la Russia di Lenin.

Credo che la critica principale che si può muovere allo scritto di Marx sia un’altra: quella di aver definito la Comune come “governo operaio”. Scrivendo a nome dell’Internazionale pochi giorni dopo la caduta della Comune, nei giorni stessi in cui gli uomini di Thiers massacravano a migliaia i militanti della Comune, Marx non poteva prendere atteggiamento diverso da quello che ha preso. Ma 10 anni dopo, scrivendo all’olandese Domela Nieuwenhuis, che lo aveva interpellato circa i provvedimenti che un governo socialista avrebbe dovuto decretare subito dopo la presa del potere, egli risponde che il problema non si può porre in astratto, perché la rivoluzione socialista scoppierà quando saranno mature le condizioni e il proletariato saprà allora quali provvedimenti dovrà prendere. E aggiunge: “Lei mi rammenterà forse la Comune di Parigi, ma a parte il fatto che essa fu la sollevazione di una città in circostanze eccezionali, la maggioranza non era affatto costituta da socialisti e non poteva essere diversamente [31]”. Cioè la Comune non può essere definita tout court una rivoluzione operaia e socialista. Tutt’al più potremmo dire che la Comune fu l’ultima delle rivoluzioni democratiche ispirate dalla grande rivoluzione del secolo precedente, e al tempo stesso fu il preannuncio delle rivoluzioni socialiste, anche se, come abbiamo visto all’inizio, la componente socialista era indubbiamente la meno importante. Se accettiamo questa definizione della Comune, non possiamo rimproverarle di non aver fatto quello che non si proponeva di fare e che non era suo compito fare: la rivoluzione socialista.[32] Probabilmente se essa fosse stata animata da un diverso progetto, cioè dal progetto di una rivoluzione socialista, avrebbe trovato, nel suo sforzo creatore, altre strade e altre forme organizzative per realizzare quella che Marx chiama la dittatura del proletariato, e ch’egli intende come la massima democrazia per il proletariato, cioè per l’immensa maggioranza, e la privazione della libertà per l’ex-classe dominante, storicamente al tramonto e condannata a sparire non fisicamente ma socialmente, appunto come classe dominante. Se la Comune avesse voluto questo, avrebbe probabilmente preso l’offensiva contro Versailles, si sarebbe impadronita della Banca di Francia, avrebbe impiegato la sua forza e il suo potere d’attacco contro l’ordine borghese, contro la proprietà privata dei mezzi di produzione, contro le strutture della società capitalistica. La sua debolezza e la sua rapida sconfitta stanno nelle sue contraddizioni non risolte, nella mancanza di una forza egemone capace di dare un indirizzo coerente e omogeneo all’esercizio del potere. Ma non credo di peccare di eresia se affermo che neppure gli stati che oggi si definiscono socialisti, neppure l’Unione Sovietica – che vive da oltre mezzo secolo mentre la Comune è durata soltanto 70 giorni – ha risolto il problema fondamentale di unire in una sintesi felice la trasformazione socialista della società e l’autogoverno della società. Potevamo chiedere alla Comune, in circostanze tanto diverse, di realizzare questo miracolo?

Il messaggio della Comune

E se, nonostante queste contraddizioni non risolte, sentiamo oggi il bisogno, a cento anni di distanza, di rievocare la Comune come una tappa fondamentale della storia contemporanea, è perché essa, ad onta dei suoi limiti, rappresenta anche il primo abbozzo di una rivoluzione socialista, prima tappa di un lungo cammino che prosegue ancor oggi. I rappresentanti operai, anche se minoritari, sono presenti in misura sensibile nella Comune; la classe operaia è presente e anzi in prima fila nella battaglia, e non a caso l’epicentro della lotta non sarà più, come nella grande rivoluzione e ancora nel 1848, il Faubourg Saint-Antoine, quartiere artigiano, ma Belleville, quartiere operaio. Soprattutto attraverso Frankel, internazionalista in rapporto con Marx, anche la voce di Marx arriva alla Comune, e i bisogni e le aspirazioni della classe operaia non possono essere ignorati. Così questa Comune, nata senza precisi programmi, e certo senza orientamento socialista, è costretta poco a poco, di fronte a problemi concreti, a prendere posizioni sempre più avanzate, perché il suo sostegno principale, che è la classe operaia, le reclama in tono sempre più vivace. Partita da posizioni genericamente repubblicane e di autonomia municipale di Parigi, la Comune si trova ad affrontare i problemi del lavoro, ed anche se non prende misure rivoluzionarie, assume necessariamente la difesa degli operai. E la commissione investita di questi problemi, di cui il responsabile è appunto Frankel, emana il decreto che proibisce il lavoro notturno dei garzoni panettieri, e un altro, più importante, che affida all’autogestione operaia le fabbriche abbandonate dai padroni.

Si può dire che ogni giorno che passa rende sempre più chiaro che un’autentica democrazia non può convivere con un regime di oppressione e di sfruttamento di classe, che non le forme istituzionali democratiche possono provocare quasi automaticamente l’emancipazione dei lavoratori ma che, al contrario, l’emancipazione dei lavoratori è condizione necessaria di una vita democratica. Un regime che vuole sul serio fondarsi sulla democrazia di base, sulla partecipazione responsabile di tutti i cittadini alla gestione degli interessi collettivi, deve realizzare le condizioni che rendano possibile a tutti i cittadini di parteciparvi in condizioni di eguaglianza, deve eliminare le differenziazioni sociali, gli ostacoli economici e culturali allo sviluppo libero della personalità. Così a un certo punto gli artisti si costituiscono in federazione per autogestire il mondo dell’attività artistica, così la donna acquista un peso nuovo nella società, la scuola viene liberata da ogni ingerenza clericale, un soffio nuovo pervade la vita della popolazione. “Si aveva fretta – scriverà Louise Michel – di sottrarsi al vecchio mondo[33]”. E un gruppo di comunardi, per il momento soltanto una minoranza, che si definiscono socialisti rivoluzionari, reclamano “l’avvento politico dei lavoratori. In una parola l’eguaglianza sociale. Non più padronato, non più proletariato, non più classi[34]”.

Per avere posto e affrontato, sia pure ancora in forma quasi embrionale, questi problemi, la Comune è, come ho detto in principio, una finestra aperta sul futuro, il punto d’incontro fra le vecchie rivoluzioni e le future rivoluzioni socialiste. Ma non solo per questo la Comune è ancor oggi importante, bensì, a mio parere, soprattutto per avere sia pure confusamente tentato la prima risposta a quello che sarà il modo di vita capitalistico, quello di cui l’umanità d’oggi soffre fino al parossismo.

Ho già ricordato che la Comune cade in un momento di transizione della società francese, nel momento di passaggio da una società prevalentemente rurale e artigianale a una società a predominanza industriale. Non si tratta soltanto di uno spostamento di lavoratori dalla bottega artigiana alla fabbrica, si tratta di un generale mutamento del modo di vita e dei rapporti umani. L’uomo unisce in se stesso un momento individuale e un momento sociale: ha certo bisogno di sentirsi se stesso, di riconoscere la propria personalità distinta ed autonoma, ma al tempo stesso ha bisogno di riconoscersi membro di un gruppo, di una collettività, di avere rapporti concreti, personali con altri esseri umani. La parola di cui è dotato non servirebbe a nulla se l’uomo non avesse intrinsecamente, come momento essenziale del suo essere, anche questo momento sociale, questo bisogno di comunicazione, di partecipazione a una vita collettiva. Nella società precapitalistica questi rapporti sono sempre rapporti personali: con la vasta cerchia dei membri della famiglia grande, con gli altri membri del villaggio per chi vive in campagna, o del quartiere per chi vive in città, con i compagni della bottega artigiana, ecc. Anche i rapporti fra il negoziante e il suo cliente sono rapporti di questa natura: rapporti fra persone che si conoscono, che non hanno, l’uno di fronte all’altro, un volto anonimo. In questo vecchio mondo la vita si svolge a livello umano.
L’avvento dell’industria moderna e dello stato moderno ha sconvolto questo vecchio mondo non solo sotto l’aspetto economico e politico, ma anche sotto l’aspetto dei rapporti umani. A poco a poco al vecchio tipo di rapporti fra gente che si conosce, che si frequenta perché si conosce, che non si limita a un contatto esterno e puramente formale, subentra il rapporto anonimo e impersonale del mercato, un processo analogo a quello descritto da Marx per cui al valore d’uso degli oggetti subentra il valore di scambio delle merci. Non più l’uomo ma il denaro è la misura di tutte le cose. In questo sistema di rapporti anonimi e reificati, il momento sociale dell’uomo si svuota di ogni contenuto autentico, l’uomo rimane un isolato, solitario anche in mezzo alla folla in cui vive immerso quotidianamente, secondo la definizione di Riesman. Si sente spesso ripetere che questa è una conseguenza non del capitalismo ma dello sviluppo industriale, indipendentemente dal tipo di rapporti sociali, ma credo che non sia esatto. Certo lo sviluppo tecnologico, l’avvento della grande industria, modifica gli antichi equilibri, ma se gli immensi mezzi di produzione fossero nelle mani della collettività e al servizio della collettività, anziché nelle mani di privati e comunque al servizio del profitto e del potere privati, certamente la collettività saprebbe trovare nuove forme di equilibrio, una nuova risposta ai suoi bisogni, dei modi di vita che, lungi dal distruggere i valori interiori dell’uomo, potrebbero al contrario esaltarli. Viceversa sviluppandosi secondo la logica capitalistica del profitto, lo sviluppo industriale ha ucciso l’equilibrio interno dell’uomo, così come del resto ha ucciso lo stesso equilibrio della natura. Quando si parla delle contraddizioni del capitalismo, si tende ancor oggi a porre l’accento sul rapporto fra il capitalista e l’operaio, dimenticando che il dramma più grave delle società capitalistiche contemporanee è proprio la distruzione dell’equilibrio interno umano e dell’equilibrio ecologico, del rapporto fra gli uomini e del rapporto con la natura, cioè del fondamento di tutta la prassi sociale.

Naturalmente tutto questo non era ancora visibile un secolo fa e sarebbe sciocco dire che la Comune ha avuto coscienza di questi problemi. Ma credo non sia fuor di luogo dire che la Comune è stata anche una ribellione alle prime manifestazioni di questa tendenza a distruggere il mondo dell’uomo, ad isolare l’uomo dalla società, a ridurlo a semplice strumento di un potere lontano ed estraneo. Appunto nel senso di questa ribellione vanno gli sforzi della Comune che ho prima ricordato, la ricerca di una democrazia di base, il desiderio di alimentare una nuova vita collettiva, di dare impulso alla partecipazione e di fornirle gli strumenti, lo sforzo di responsabilizzare gli uomini. È significativa per esempio a questo riguardo la decisione del direttore del museo di storia naturale di Parigi di affidare il rispetto del museo non a divieti e a sorveglianti ma all’onore del popolo di Parigi, che deve sentirsi padrone e destinatario dei tesori artistici e scientifici che sono custoditi nei musei e perciò investito della responsabilità di rispettarli e farli rispettare. Ed è non meno significativo il fatto che questo popolo di Parigi senta il suo onore talmente impegnato nel tentativo di rompere con il passato, che è il popolo stesso che lotta contro la corruzione precedente, lotta contro l’ubriachezza, contro la prostituzione, contro le forme degradanti di vita perché un popolo libero deve saper vivere con dignità e tutta la dignità e l’onore del popolo sono impegnati nella difesa collettiva di questi valori. Non so se riesco con questi esempi a render chiaro quale mi sembra essere l’alto insegnamento umano e morale della Comune, del popolo di una grande città che vuol prendere in mano i propri destini e si sente cosciente della responsabilità storica che in tal modo si assume, la responsabilità di elevare se stesso e la sua città.[35]

Se dovessi riassumere con una sola frase quello che io considero il significato più profondo della Comune direi che essa rappresenta le sforzo di ricreare una società a misura dell’uomo, di salvare i valori umani minacciati, di permettere a tutti gli esseri, uomini e donne, vecchi e bambini, di non ridursi a congegni anonimi manovrati da un potere kafkiano, ma di vivere una vita umana. È questa vita umana che il capitalismo, proprio a cagione delle sue contraddizioni interne, non poteva consentire, ed è in questo soprattutto, più che in una volontà cosciente o in un preciso programma, che sta il significato socialista della Comune, inteso il socialismo come esaltazione della personalità, come liberazione da ogni forma di oppressione, come capacità effettiva e concreta di autoamministrarsi. “Il popolo è stanco di salvatori; d’ora innanzi intende discuterne gli atti”, scrive il giornale “Proletarie” del 19 maggio, alla vigilia della caduta. In quest’ultima affermazione di democrazia, intesa nel senso che ho cercato di spiegare, cioè che gli uomini sono responsabili della propria salvezza, potrebbe racchiudersi il messaggio di civiltà che la Comune ci ha affidato. In questo senso essa rappresenta indubbiamente il primo serio, anche se non chiaro, tentativo di reagire alla disumanizzazione imposta dall’incipiente capitalismo, il primo tentativo di restituire l’uomo alla sua integralità minacciata dal nuovo Moloch. E la sua sconfitta potrebbe anche significare che l’uomo che non è capace di salvarsi da sé non merita di essere salvato, o, forse, è già perduto perché non può essere salvato da terzi. In ultima analisi questo bisogno di autonomia, di democrazia, di partecipazione, di responsabilità – che costituisce il più grande sforzo della Comune – postulava già il socialismo perché la società capitalistica è incompatibile con questi valori.
Questo bisogno di responsabilità, questa volontà di difendere i più gelosi valori umani è certamente alla radice del grande eroismo della Comune, dello straordinario spirito militante con cui gli uomini della Comune si sono battuti contro l’assalto dei versagliesi, con cui hanno offerto la loro vita sulle barricate o davanti ai plotoni di esecuzione o hanno affrontato i processi e i lunghi anni di deportazione. Non si è mai potuto stabilire il numero delle vittime assassinate nell’orgia di sangue scatenata dal governo di Versailles: le cifre più attendibili parlano di 20.000 o 30.000[36] persone, mentre altre migliaia saranno condannate a lunghi anni di prigione e in gran parte deportate nelle isole dell’Oceania dove molti ancora troveranno la morte. Simbolo di questo eroismo collettivo e al tempo stesso della ferocia della repressione, rimane Eugène Varlin, “l’onore del proletariato francese”, operaio legatore, internazionalista, già condannato dai tribunali imperiali, che nella Comune aveva appartenuto alla minoranza ostile all’istituzione d’un comitato di salute pubblica perché credeva nella necessità di far appello alla coscienza dei militanti: dopo aver combattuto fin sull’ultima barricata di Belleville, quando non rimane più nessuna speranza di resistenza, convinto che ormai la vita non meriti di essere vissuta, si abbandona su una panca ad attendere il destino. Riconosciuto da un prete è denunciato. Varlin, che solo due giorni prima aveva rischiato la propria vita contro i suoi compagni per salvare la vita degli ostaggi, viene barbaramente trucidato senza neppure un giudizio sommario, e l’ufficiale assassino lo deruba dell’orologio che gli avevano offerto, in segno di riconoscenza per la sua opera, gli operai parigini. La “giustizia” borghese lo condannerà a morte in contumacia 18 mesi dopo il suo assassinio, il 30 novembre 1872.

“Ci siamo sbarazzati del socialismo”, dirà a commento dei massacri il capo dell’esecutivo Thiers. Era vero il contrario: il socialismo moderno nasceva da quella dolorosa esperienza, dai suoi errori come dai suoi successi. Marx ne traeva insegnamenti preziosi per l’indirizzo da dare alla futura edificazione del socialismo insieme con quello, più immediato, della necessità di dar vita autonoma a un partito operaio che emancipasse il proletariato dall’egemonia delle forze democratiche borghesi, che in Italia si tradurrà nell’emancipazione delle società operaie dall’egemonia mazziniana. Quella che poté sembrare all’indomani della Comune una divisione delle forze di sinistra, che travolse la stessa Internazionale, era la matrice di una nuova tappa dell’ascesa dell’umanità verso la sua liberazione, verso l’avvento del socialismo.[37]

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[1] I giornali della Comune, antologia a cura di Mariuccia Salvati, Milano, 1971.

[2] “Ce qu’il nous faut c’est un Quatre-Ving-Treize” (Club Favié, seduta del 19 novembre 1870, cit. in G. de Molinari, Les clubs rouges pendant le siège de Paris, Paris, 1871, 2e éd., p. 96). “Voilà pourquoi nous avons besoin de la Commune: elle nous rendra 93 et 93 nous rendra la victoire” (Club Favié, seduta del 19 dicembre 1870, ibid., p. 158). Dopo la nomina del comitato di salute pubblica, tipico ricordo della grande rivoluzione, lo stesso “lance deux appels où il ne manque pas d’utiliser la phraséologie périmée de 1792-93” (J. Bruhat-J. Dautry-E. Tersen, La Commune de 1871, Paris, 1970, 2a éd., p. 2561). A. Decouflé, La Commune de Paris (1871), (Paris, 1969) parla del peso “de la mémoire collective, la référance obsédante à Quatre-Ving-Treize” (p. 25).

E come al 1793, c’è il riferimento costante anche al 1848: “La Commune, pardelà les circostances qui la feront surgir, constitue une tentative héroïque pour réaliser, sous la direction des ouvriers, le rêve des masses populaires depuis 1848: la République sociale et populaire” (Bruhat e altri, op. cit., p. 61). Farei qualche riserva sull’espressione “sotto la direzione degli operai”, che mi pare voglia ricondurre l’esperienza della Comune a uno schema posteriore. Certo, gli ideali del ‘48 erano molto presenti a tutti, anche perché era viva in gran parte la generazione che aveva fatto quella rivoluzione. “Les hommes eux-mêmes incarnent cette continuité en acte. En 1870, une partie des meilleures troupes de la Commune (et quelques erreurs commises dès le début par les chefs militaires empêcheront de les utiliser pleinement) sera constituée par les vieux révolutionnaires de 1848, aux cheveux déjà blanchis. Ces hommes veulent, avec la Commune, reprendre et achever ce qu’ils ont tenté en 1848; ils ne le cachent pas. Sans parler des acteurs chevronnés de la Commune, Blanqui, le révolutionnaire des générations passées, “l’Enfermé”, l’homme d’action au prestige incomparable, qui ne pourra participer à la Commune parce qu’il est une fois de plus un prison dans un coin de province, Blanqui est né en 1805; il a été blessé pour la première fois dans une manifestation en 1827; il a participé aux “Trois Glorieuses” de 1830, à la révolution de 1848” (H. Lefebvre, La proclamation de la Commune, Paris, 1965, p. 98).

[3] Il calendario rivoluzionario cominciò ad essere adottato subito dopo il 4 settembre. Citiamo: “La patrie en ranger” di Blanqui che nasce il 7 settembre 1870 con la data 20 fructidor an 78 e dura fino all’8 dicembre 1870 (18 frimaire); “La défense nazionale” che nasce l’8 settembre 1870 (23 fructidor) e non uscirà più; “La Commune de Paris” che nasce il 10 settembre 1870 (23 fructidor); “Le Combat” che nasce il 16 settembre 1870 (29 fructidor). E successivamente fra i più importanti citiamo: “Le mot d’ordre” che nasce il 3 febbraio 1871 (15 pluviôse); “Le Père Duchêne” che nasce il 6 marzo 1871 (16 ventôse); “La bouche de fer” che nasce l’8 marzo 1871 (17 ventôse); “La Comune” che nasce il 20 marzo 1871 (29 ventôse); “La sociale” che nasce il 31 marzo 1871 (10 germinal); “La montagne” che nasce il 2 aprile 1871 (12 germinal); “Le réveil du Peuple” che nasce il 18 aprile 1871 (28 germinal); “L’estafette” che nasce il 23 aprile 1871 (4 floréal); “Le salut public” che nasce il 16 maggio 1871 (27 floréal). Altri giornali che uscivano già precedentemente adottarono il calendario rivoluzionario. Citiamo: “Le rappel” che adottò il nuovo calendario il 18 marzo 1871 (27 ventôse) e il “Journal officiel de la République française” che lo adottò il 24 maggio 1871 (4 prairial).

[4] “Le Vengeur” del 3 maggio 1871 (13 floréal 79).

[5] Procès-Verbaux de la Commune de 1871, T. II, Paris, 1945, p. 36.

[6] G. Lefrançais, Etude sur le mouvement communaliste à Paris en 1871, Neufchâtel, 1871, p. 278.

[7] Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné de Sciences, des Arts et des Métiers, T. III, Paris, 1753, p. 725.